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Venerdì, 13 Gennaio 2017 17:49

Sicurezza e libertà: recente intervista a Zygmunt Bauman

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Con il titolo «Il futuro: un luogo ancora tutto da occupare», presentiamo l’intervista di Rosetta Pangalli a Zygmunt Bauman. Uno dei temi notevoli, il “pendolo della storia”, che oscilla tra sicurezza e libertà. 

Il futuro: un luogo ancora tutto da occupare

di Rosetta Pangalli (intervista al Museo Pecci, Prato, 3 novembre 2016)

 

Con le analisi sociologiche di Zygmunt Bauman, uno degli studiosi più importanti al mondo, abbiamo familiarizzato attraverso il concetto di ‘liquidità’ che dal 2000 (anno di pubblicazione di Liquid Modernity, uno dei suoi libri più famosi) ci ha aiutato a conoscere e analizzare i fenomeni della modernità. Da allora, attraverso questa idea di leggerezza, fluidità e scorrevolezza, abbiamo imparato a prendere coscienza dell’instabile condizione contemporanea, di cui la sovrapproduzione economica e la globalizzazione sono le dirette creatrici. Oggi, più che allora, il momento di fare i conti con i danni collaterali di ciò che abbiamo desiderato e costruito (o che qualcun altro ha costruito secondo desideri che abbiamo sostenuto e condiviso) è arrivato, e davanti a noi si apre uno scenario politicamente e umanamente disastroso con il quale ci stiamo scontrando e per il quale siamo chiamati a trovare urgenti soluzioni. Nell’ incontro tenutosi il 3 Novembre al Museo Pecci di Prato, il sociologo polacco non ha dubbi e ci porta direttamente al cuore del problema: al momento gli strumenti di cui disponiamo sono inefficaci ad invertire la rotta che le rovinose politiche internazionali hanno delineato. Tornare indietro, guardare al passato come ad un’utopia non distoglierà il nostro sguardo da ciò che abbiamo intorno.

Se è vero, come dice Bauman, che la domanda da porci non sia tanto sul ‘cosa’ fare, ma quanto su ‘chi’ sia disposto veramente a fare qualcosa, è vero –si può riflettere– che la risposta da trovare deve aprirsi più consapevolmente che mai all’idea di futuro che cerchiamo. Il futuro come unico luogo da dover difendere, abitare e costruire. È necessario quindi, uno sforzo di fantasia, di immaginazione per trovare risposte a questa crisi di strumenti di cui Bauman parla.

Pangalli: Professor Bauman, innanzitutto proviamo a capire di chi stiamo parlando quando parliamo di migranti, di cosa parliamo oggi quando diciamo di essere in ‘emergenza’: chi è l’estraneo, lo ‘straniero’, lo ‘strano’ che si è messo in cammino verso di noi? Cos’ha di diverso dai migranti e dai rifugiati che da sempre transitano attraverso i continenti?

Bauman: Una causa della marea di migranti che bussa alla nostra porta, marea sempre in aumento e destinata a crescere, è l'enorme disuguaglianza di reddito e di qualità della vita tra il Nord e il Sud, anche questa in aumento. Se i vasi sono comunicanti, il liquido che contengono tende a pareggiare i livelli – come sappiamo dalla fisica elementare. Tutti i vasi, nel nostro mondo di interdipendenza mondiale, finanza globalizzata, circolazione di merci e informazioni, sono collegati; possiamo aspettarci che una tendenza simile continui ancora per un lungo periodo di tempo, in quanto tutti i segni indicano che la possibilità di un pareggiamento verso l'alto diventa sempre più remota, invece di avvicinarsi. Questo è il ‘danno collaterale’ [1] che si è creato, lasciando l’economia senza guinzaglio politico e abbandonandola alla sua propria logica, che notoriamente ingigantisce la disuguaglianza sociale in tutte le sue dimensioni.

Un'altra causa è ancora più intimamente legata alle nostre imprese e trascuratezze. La politica indirizzata a cercare soluzioni militari per i problemi sociali e politici (come nel caso delle invasioni dell’Afghanistan o dell’Iraq), così come l'imposizione della finzione dello Stato-nazione sulle ex colonie europee hanno portato alla destabilizzazione di quasi tutta la cintura che si estende tra il tropico del Cancro e quello del Capricorno, ora luogo di Stati crollati, guerre inter-tribali, religiose e civili, sanguinose e interminabili, che sono seguite a quel crollo e al puro banditismo da cui discendono i conflitti armati. Questa cintura è attualmente un’enorme fabbrica di rifugiati in ‘corsa per la vita’, e di nuovo – data la saturazione del globo rispetto alle armi ottenute legalmente o vendute illegalmente – tutti i segni lasciano presagire che sia del tutto improbabile che i volani di quella fabbrica possano rallentare, né tanto meno subire una battuta d'arresto, in un futuro prevedibile.

Pangalli: Siamo uomini moderni a tutti gli effetti: viviamo a tutti i livelli nel consumismo, siamo liquidi, accediamo costantemente e a basso costo a qualsiasi informazione. Quotidianamente ci confrontiamo con i ‘danni collaterali’ del capitalismo, ma ‘locale’ e ‘globale’ ancora creano in noi un cortocircuito. Cosa ancora ci sfugge? Quali sono gli strumenti che ancora ci mancano?

Bauman: È mia profonda e forte convinzione che i problemi concepiti a livello globale (e i più gravi dei nostri problemi sono concepiti a livello globale) possono essere gestiti in modo efficace e alla fine essere risolti esclusivamente allo stesso livello, cioè a livello globale. Siamo coinvolti in una profonda crisi di strumenti; la grande domanda, ancora in attesa di risposta, non è tanto ‘che cosa si deve fare?’, ma ‘chi è disposto’ e, soprattutto, ‘chi è capace di farlo?’. Questa crisi è causata dalla separazione in corso tra il potere (capacità di fare le cose) e la politica (capacità di decidere quali cose si dovrebbero fare). I poteri decisivi sono già globalizzati (per usare la terminologia di Manuel Castells: questi poteri galleggiano disancorati nello «spazio dei flussi»), mentre la politica, a livello locale, è ancora come era un paio di secoli fa (nei termini di Castells: bloccata nello «spazio dei luoghi» [1]).

I poteri, emancipati dal controllo politico, affrontano ora incapaci il piano politico, per l'insufficienza permanente del potere stesso. Inoltre, per dirla con le conclusioni esposte da Ulrich Beck in una delle sue ultime opere, siamo già gettati, volenti o nolenti, nella «condizione cosmopolita», ma «la consapevolezza cosmopolita» è ancora in attesa di nascere ed è stata abbracciata – finora – invano.

Pangalli: ‘Abbandonare case’, ‘invadere città’, ‘morire in mare’, ‘occupare confini’: l’esperienza della diaspora (come lei preferisce chiamare questo fenomeno) è strettamente legata ai luoghi in cui questi eventi si verificano, e quelli che stiamo creando sono dei luoghi finti, neutri, senza fondamenta, senza connotazione, disegnati con il filo spinato, non segnalati sulle mappe. Questo come influenza e cambia l’identità e il senso di comunità di coloro che abitano questi luoghi?

Bauman: L’impatto più grave, ma forse anche il più seminale della massa di rifugiati che sta forzando le nostre porte per aprirle, è quello che sta portando gli orrori lontani della globalizzazione selvaggia (e cioè la perdita di controllo) fin dentro le nostre case. Come Bertold Brecht ha avvertito quasi un secolo fa, i rifugiati sono forieri di cattive nuove: di poteri che si impongono al di là di ciò che è alla nostra portata, inarrestati e con ogni probabilità inarrestabili, come di fatto è già accaduto per queste persone: senza patria, spogliate dei loro beni e della loro posizione sociale – così come dei loro diritti umani e della loro dignità. I rifugiati che approdano sulle nostre strade portano in superficie, nel mondo palpabile, ‘reale’, a noi – incerti e perplessi, come siamo – i nostri incubi. Credo che questa sia la ragione più profonda della nostra reazione ostile all’arrivo dei rifugiati. A nessuno piacciono i messaggeri di cattive notizie.

Pangalli: Qualche tempo fa, anche i nostri politici hanno voluto provare a convincerci che la triade territorio/Stato/nazione fosse ufficialmente caduta e superata. Hanno tentato di costruire una nuova comunità di tipo economico dimenticando, però, che i cambiamenti vanno sostenuti culturalmente e socialmente. Appoggiando scelte internazionali ottuse, scoprono oggi che i passaporti e le Università frequentate non sono garanzia di fedeltà. Restandone falsamente sorpresi, nascondono le loro responsabilità. Qual è il destino delle politiche di chiusura, allontanamento, confinamento e sospetto su cui gli Stati europei stanno tornando?

Bauman: Volendo dare una descrizione sintetica della svolta del senso comune che si è avuta di recente, ho coniato il termine ‘retrotopia’ (dalla fusione della tendenza al ‘rétro’ con la posizione moderna rispetto alle utopie di un tempo). La politica modellata secondo il biblico Primo libro dei Re, (1 Re, 12, 16: «quando compresero che il re non dava loro ascolto, tutti gli Israeliti risposero al re: ‘che parte abbiamo con Davide? Non abbiamo eredità con il figlio di Iesse! Alle tue tende, Israele!’»), ricevendo il supporto diffuso e spesso troppo entusiasta delle masse elettorali, è salita dalla frustrazione e dal disincanto rispetto alle istituzioni politiche esistenti, visibilmente incapaci (e sospettate di essere restie al cambiamento) ed è arrivata ad abbandonarle a se stesse, rispetto al compito che era stato loro affidato e che improbabilmente manterranno. Con questa crisi di fiducia, ci illudiamo di essere in grado di affrontare la crisi della migrazione nel modo in cui stiamo cercando di affrontarla: bloccando la porta e resuscitando in tal modo l’eredità della Pace di Westfalia del 1648, della ‘Primavera delle Nazioni’ del 1848 e della proclamazione del 1919-1921 di Woodrow Wilson, pensando cioè che il connubio tra Stato, nazionalità e sovranità territoriale sia il principio ineccepibile della convivenza umana sulla Terra. Disincantati rispetto ad una sperimentazione orientata al futuro, avendo perso la fiducia nei leader che ci conducono o fingono di condurci verso il futuro stesso, tendiamo a localizzare le nostre idee di ‘una società buona’ nel passato, invece che nel futuro (come hanno fatto i nostri antenati nella loro epoca di ottimismo e culto del progresso).

Pangalli: In Conversazioni con Zygmunt Bauman8, rispondendo a Keith Tester, Lei dice che libertà e sicurezza sono legate, che l’una non può essere pensata senza l’altra. Il testo fu pubblicato nell’agosto 2001, da allora molte cose sono successe e oggi su questi due concetti si sta giocando la partita dell’accoglienza e della convivenza. Come la pensa oggi?

Bauman: La relazione ambivalente, dialettica, di odio-amore (Haßliebe) esistente tra sicurezza e libertà – due valori tanto indispensabili per una vita decente e dignitosa quanto difficili da essere riconciliati e goduti contemporaneamente – è una parte inalienabile e significativa della condizione umana. Lo era nel 2001 come lo è oggi, e, di fatto, lo è sin dagli inizi dell’umanità e lo sarà ad infinitum. La loro dialettica, tuttavia, richiede di trattare la storia del genere umano come un movimento pendolare (a differenza di quanto è stato fatto nel XIX secolo, quando la storia è stata scritta come una serie di progressi costanti verso la libertà). Data l’impossibilità di guadagnare sicurezza senza cedere parti di libertà (come Sigmund Freud aveva già sostenuto in maniera convincente) e data l’impossibilità di estendere la libertà senza cedere una parte della sicurezza, il movimento pendolare non può che essere questo: quanto più arriviamo vicini al nostro ideale di sicurezza, tanto più onerosi e irritanti diventano i vincoli crescenti ma inevitabili imposti alle nostre libertà; mentre quanto più siamo vicini alla piena libertà senza vincoli, tanto più diventiamo insofferenti nei confronti del caos e dell'imprevedibilità di un mondo disorganizzato ‘fuori dal normale’, afflitto dai rischi che emergono, qualsiasi passo abbiamo il coraggio di prendere. In entrambi i casi, l'energia potenziale si trasforma nel suo equivalente di energia cinetica, e il pendolo inverte la sua direzione. Io credo che siamo attualmente testimoni di un cambiamento di questo tipo: sempre più persone stanno maturando la disponibilità a cedere un numero crescente di spazi di libertà per una crescita – vera o presunta, compiuta o solo promessa – del senso di sicurezza [2].

 

[1] Cfr. M. Castells, The Informational City: Information Technology, Economic Restructuring and the Urban Regional Process, Blackwell, Oxford, 1989 e The Information Age: Economy, Society and Culture, Blackwell, Oxford, 1996 – 1998, tr. it. La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore – EGEA, Milano, 2002.

[2] Cfr. Z. Bauman, K. Tester, Conversations with Zygmunt Bauman, Polity Press, Cambridge, 2001, tr. it. Società, etica, politica: conversazioni con Zygmunt Bauman, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002.

 

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